Racconto breve di Roby Ragazzo
Guardati. Stronza. Non ti vergogni neanche
un po’?
È la seconda volta, oggi, che mi passi davanti senza degnarmi di uno sguardo.
Eppure
ero io ad avere addosso il sapore delle tue lacrime, la sera dell’addio di quel
bastardo.
O quando la tua presunta amichetta del cuore ti ha tradita, rivelando cosa
pensavi della tua spocchiosa compagna di banco alla diretta interessata.
O ancora prima, il giorno in cui a 13 anni tua madre ti ha trovato le sigarette
in borsa e ti ha reclusa un mese in casa.
Ovvio, è il destino dei migliori amici. Quelli con cui puoi anche finire a letto, ma teneramente abbracciati.
Ho passato una vita ad ascoltare i monologhi
delle tue sfiancanti paturnie in perfetto silenzio.
In costante modalità “listen”, mentre tu piangevi disperata come una
femminuccia.
Assisto ai tuoi trionfi e ai tuoi fallimenti da un’eternità.
Ho anche intravisto da lontano il tuo primo bacio. A un altro, chiaramente.
Come si chiamava quel bulletto con la cresta? Eh già, lui era un ribelle.
Portava le t-shirt con la manica arrotolata. Wow, un vero anticonformista.
Ti agghindavi per lui come dovessi andare a un matrimonio, rimirando allo
specchio l’effetto del tacco e la lucentezza del rossetto.
E chiedevi a me: “Come sto, tesoro?”. A me, cazzo. A me.
Io che avrei voluto dirti “Sei bellissima”
anche quando ti vedevo girare struccata e col pigiamone rosa.
Io che ho accettato di sentirmi chiamare Bobo per tutto questo tempo.
Poi, di colpo, luce spenta. Per anni mi hai
deliberatamente tenuto nel dimenticatoio.
Un periodo buio, che non voglio neppure provare a rivangare.
”La vita va avanti”, dicono. Davvero? Forse
la tua è proseguita, in un variopinto e caotico turbinio di passioni, amorazzi,
delusioni, fumo, arrosto, poesia e merda.
La mia no. Vuota, sospesa nel limbo di un’oscurità immobile.
Inutile, senza la tua amicizia.
Finché di colpo mi hai rispolverato da un
anfratto della tua soffitta emotiva e ridato vita, come non ci fossimo mai
separati.
“Certo che sei sempre uguale”, mi hai detto quando mi hai rivisto per caso.
Bella forza. Ti avrei presa a roncolate, ma mi sono limitato a esibire
trionfante il mio consueto sorriso di plastica. E mi sono sorpreso io stesso
dell’ingiustificata rapidità nel perdonarti.
Tutto come prima? Certo che no. Sono tornato
a far parte della tua vita, dopo un interregno di oblio.
E come da copione, ora che hai di nuovo il tuo giocattolino, ti dimentichi
della mia esistenza, se non di tanto in tanto per la solita spalla su cui
piangere.
Innamorato? Boh, come faccio a dirlo. Credo
di sì, per quanto mi possa definire tale.
Mi hai sempre definito un orso. Può essere, ma non sono un pupazzo.
O meglio, chiariamo: non sono un pupazzo
qualsiasi.
Sono Bobo, il tuo orsacchiotto di pezza preferito.
E sarò anche un vero e morbido peluche, ma mi
ritrovo a invidiare i rospi, dimmi tu se è possibile.
Orridi, viscidi, non li abbracceresti mai. Eppure, almeno uno di quei fortunati
bastardi si è tramutato in principe, al primo bacio.
Spettatore della tua vita, aspettatore da sempre.
Sono ancora qui. E osservo i tuoi giorni
dall’alto di uno scaffale, seduto su un trono immaginario di illusioni.
Corsi e ricorsi della tua storia. Morsi e rimorsi. Orsi e riorsi.
Non sono abbastanza, lo so. Non ho la
stoffa.
Ho soltanto questa giacchetta rossa sgualcita vecchia di 30 anni, che ogni
tanto vorrei strappare solo per farmi prendere in braccio e guardarti mentre la
ripari.
Dai, per favore: attacca il bottone.
Potessi farlo io!