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La barca di domani.

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È innegabile che ognuno di noi possa (e debba) considerare la situazione attuale come può, riferendosi alla propria vita ed alle conseguenze che questo virus sta provocando intorno a sé. Tuttavia la politica DEVE, per sua stessa prerogativa, vedere la situazione dall’alto, sganciandosi dalle problematiche del singolo per poter pianificare un futuro per tutti. Ho l’onesta intellettuale di ammettere che non conosco ogni aspetto del problema: non possiedo né una visione d’insieme, né gli strumenti per determinare possibili soluzioni. Quello che mi innervosisce però, è che nemmeno la politica sembra avere gli strumenti giusti, e questo rende ogni sua scelta discutibile.

Questo deve fare arrabbiare. Non che la politica stia sbagliando, ma che non possa in alcun modo fare bene. La situazione era “nuova” ed eccezionale e questa è stata un’attenuante, ma non può essere la scusa valida per sempre. Invece, anche ora, qualsiasi scelta fatta dalla politica sembra creare solo danni perché manca la fiducia. I cittadini non si fidano più della politica, e non è colpa dei cittadini. Di conseguenza ogni scelta politica che vada a ledere le singole libertà non viene percepita come sacrificio comune, ma come imposizione di un regime che scarica sui cittadini le proprie inefficienze. Così ognuno pensa per sé. Questo deve far arrabbiare. Invece di cercare di essere quelli che hanno la sorte migliore, dovremmo batterci perché la sorte sia la migliore per tutti. Ma la democrazia (questa democrazia) in cui non si percepisce rappresentanza vera, è fallimentare quando si va in guerra. Nonostante io non ami il parallelismo, ce lo ripetono di continuo: siamo in guerra! Ma le guerre si vincono con un esercito con ha una struttura gerarchica che non ammette repliche. Immaginate se in guerra ci fosse qualche caporale che si mette a discutere gli ordini del capitano, che a sua volta contesta il colonnello, per poi arrivare fino al generale di corpo d’armata. Tuttavia il nostro Comandante dovrebbe godere di tutta la nostra “fedeltà”, la nostra fiducia. Ma non esiste proprio. Il problema è proprio qui: la politica non ha più la nostra fiducia. E abbiamo tutte le ragioni del mondo! Nonostante tutto ci viene chiesto di fare fronte comune per combattere l’invasore! Non funziona così! L’esercito, se lo vuoi, va preparato adeguatamente per essere SEMPRE pronto alla battaglia: devi istruirlo, dargli i mezzi, e creare spirito di corpo. Devi avere costruito un ideale da difendere. Invece è stato tutto delegato al PIL, unico baluardo su cui profondere ogni sforzo. Dimenticando tutto il resto. L’economia potrà riempire i portafogli, ma non moltiplica né l’intelligenza, né riempie i cuori. Un esercito, anche armato fino ai denti, che però non crede nell’esito della guerra, sarà sempre un esercito di disertori.

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Questa è la situazione, siamo in una barca alla deriva. L’unica preoccupazione degli ultimi 30 anni è stata cercare di non far affondare questa barca tappando le falle usando qualsiasi cosa fosse disponibile al momento, ubriacando l’equipaggio perché non vedesse gli scogli vicini, ma adesso gli scogli sono troppo vicini, maledettamente vicini. Dovremmo essere uniti, correre tutti alle manovre e remare insieme per allontanarci del pericolo, invece ognuno pensa a sé stesso. Alcuni preferiscono gettarsi in mare sfidando la corrente, altri sbraitano contro tutto e tutti per la frustrazione, e anche quelli che vogliono remare sono disorganizzati, facendo girare su sé stessa una barca oramai condannata, piena di ufficiali che pensano solo a come rimanere al comando.

Abbiamo (l’occidente) concepito questo modello come il migliore possibile, ma è sostenibile solo con una crescita perenne del PIL, che però non può durare in eterno. Però la politica (e quindi noi stessi) si disinteressa dell’anno prossimo (se non sarà più in carica), figuriamoci del prossimo trentennio.

Quindi dovremo necessariamente naufragare per poter ricominciare. E anche così, poi avremmo la lungimiranza di costruire una barca migliore? E un equipaggio migliore? E useremo nuovi materiali? O saremo così miopi da cercare di risistemare un relitto con i pezzi che ci restituirà il mare? Ma soprattutto: siamo certi di dover solcare lo stesso mare? Questa è la domanda che dovrebbe farsi la politica: non il come, ma il perché. Oramai diamo talmente per assodato che questa sia l’unica realtà possibile, che non ci viene neppure in mente di metterla in discussione. Ci sono prove schiaccianti di questa immobilità intellettuale. Io spero che la spiaggia in cui ci ritroveremo naufraghi sia l’occasione per ripensare a ciò che ci rende grandi come genere umano: per la capacità di generare valore, piuttosto che per la volontà di deciderne il prezzo.

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