Home News Se quattro giorni vi sembran pochi…” Lavorare meno per lavorare tutti?

Se quattro giorni vi sembran pochi…” Lavorare meno per lavorare tutti?

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Governi e partiti di vari paesi, negli ultimi anni, hanno avviato o promosso esperimenti per ridurre il tempo trascorso al lavoro e verificare l’impatto non solo sulla produttività e il bilancio, ma anche sul benessere psicologico delle persone, sull’ambiente e sulla giustizia sociale. E l’ultima frontiera è il taglio non solo delle ore, ma dei giorni: quattro a settimana anziché cinque, a parità di stipendio.

Qualcuno, lo ha proposto per ridurre i costi, nella convinzione che tenere gli uffici chiusi il venerdì permetterebbe di risparmiare su voci come energia, pulizia, sorveglianza ecc.

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Secondo Andrew Barnes, imprenditore che ha sperimentato il modello nella sua società in Nuova Zelanda e ha fondato poi la no-profit 4 Day week global, i quattro giorni permetterebbero anche di ridurre il divario di guadagni tra uomini e donne. Come spiega il World economic forum,una delle principali ragioni per cui le donne sono pagate meno è che spesso lavorano meno ore dopo la nascita dei figli, perché danno priorità ai bambini rispetto alla carriera”. Con una settimana più corta, “sarebbero libere di trascorrere un giorno a settimana in più con i figli, senza essere svantaggiate rispetto ai colleghi”.

Altri insistono sui risvolti ambientali. Un rapporto di Platform London, organizzazione britannica che si occupa di ambiente e giustizia sociale, e di 4-Day week campaign, campagna per l’adozione della settimana breve, ha calcolato che i quattro giorni ridurrebbero le emissioni di carbonio del Regno Unito di 127 milioni di tonnellate all’anno: l’equivalente dell’eliminazione di 27 milioni di auto.

Il progetto, comunque, che ha trovato maggiore risonanza, finora, è stato quello dell’Islanda, che tra il 2015 e il 2019 ha sperimentato diversi tagli di orario, senza diminuzioni di stipendio, in 66 luoghi di lavoro. La ricerca ha coinvolto 2.500 persone, alcune delle quali hanno lavorato quattro giorni a settimana. Autonomy, società di ricerca che ha analizzato i risultati, ha definito l’esito “un successo straordinario”. Un rapporto ufficiale ha concluso che la produttività è rimasta costante o è aumentata, mentre i dipendenti hanno accusato meno stress e hanno avuto più tempo da dedicare alla famiglia e agli hobby.

Negli ultimi due anni, la settimana corta ha trovato sostegno sempre più ampio tra i politici di molti paesi. Nel 2019 Dimitri Medvedev, all’epoca primo ministro russo, disse che “i contratti di lavoro del futuro saranno basati su una settimana di quattro giorni”. Nello stesso anno i laburisti britannici adottarono la settimana corta come politica ufficiale del partito. La premier neozelandese, Jacinda Ardern, l’ha indicata come strumento per favorire la ripartenza dopo la pandemia. In Spagna, il partito Más País ha promosso un progetto pilota per una settimana di 32 ore, per ridurre l’inquinamento “mettere la salute mentale al centro dell’agenda politica”. E anche l’ultimo Piano economico annuale giapponese propone di incoraggiare le aziende a lasciare ai dipendenti la scelta tra i quattro e i cinque giorni. Come ha spiegato il Corriere della Sera, alla radice c’è la volontà di far “mettere in cantiere più figli” alle coppie per “ringiovanire una società sempre più vecchia”.

L’iniziativa del Giappone ha colpito perché è arrivata nel Paese in cui esiste addirittura un termine – karoshi – per indicare la morte per troppo lavoro. Molti giornali hanno parlato del caso di Miwa Sado, una giornalista morta d’infarto nel 2013 a 31 anni dopo avere accumulato 159 ore di straordinari in un mese, trovata con il cellulare ancora stretto in mano. 

In ogni caso, alcuni paesi hanno già superato il tradizionale modello delle 40 ore. 

La Francia, per esempio, è passata a 35 nel 2002, i metalmeccanici tedeschi a 28 tre anni fa. 

In Italia, dalla conquista del sabato libero, cinquant’anni fa, non si è quasi più discusso di riduzioni di orario. “Non è stato più un argomento perché per trent’anni l’idea dominante è stata quella della produttività a tutti i costi”, ha sottolineato Simone Fana, autrice del saggio Tempo rubato

Un’analisi pubblicata sul Post afferma che “le tendenze storiche globali in materia di orario di lavoro mostrano una riduzione graduale, ma la ragione non è una riflessione sul bilanciamento tra vita privata, salute e lavoro, ma la capacità contrattuale dei sindacati”. E per una “finta partita Iva o un lavoratore di una moderna startup, in cui il culto dell’impresa stabilisce che chi lascia la scrivania prima delle 20 è un peso di cui l’azienda deve liberarsi, la riduzione degli orari non sembra un tema vincente”.

Proposte come quelle dell’Islanda, dunque, continuano a sembrare avveniristiche. Eppure arrivano molto in ritardo rispetto alle previsioni dell’economista John Maynard Keynes che, nel 1930 provò a immaginare l’evoluzione del lavoro nei cento anni successivi: in Possibilità economiche per i nostri nipoti scrisse che i suoi discendenti avrebbero lavorato 15 ore a settimana! 

In ogni caso, dopo l’analisi di varie ricerche sul lavoro nei settori più diversi, il risultato sembra confermare che non esista una proporzione diretta tra ore e produttività perché “il rapporto tra ore di lavoro e produttività non è lineare”: oltre una certa soglia, la produzione cresce in modo sempre più lento. E coloro che “lavorano a lungo possono accusare fatica o stress che non solo riducono la loro produttività, ma aumentano la probabilità di errori, incidenti e malattie che causano costi per il datore di lavoro”.

In definitiva, uno studio dell’università di Reading, dedicato in particolare alla settimana corta, ha concluso non solo che i quattro giorni determinano “un miglioramento della salute fisica e mentale dei dipendenti”, ma anche che “i due terzi delle aziende britanniche che operano con questo regime hanno registrato una maggiore produttività del personale”.

C’è poi chi vede nel taglio dell’orario una soluzione alla disoccupazione tecnologica: la perdita di posti di lavoro dovuta a nuove tecnologie che riducono la necessità di mano d’opera. Un pericolo ancora più sentito nell’era della trasformazione digitale. 

Una considerazione che, del resto, già nel 1933 Giovanni Agnelli, presidente della Fiat, formulò in una lettera a Luigi Einaudi, in cui indicava come causa di disoccupazione “l’incapacità dell’ordinamento del lavoro” di trasformarsi alla stessa velocità “dell’ordinamento tecnico”.

Ma non c’è dubbio, secondo il nostro parere, che la strada sia ancora irta di ostacoli e di forti contraddizioni, come dimostra, in modo esemplare, Jack Ma, fondatore di Alibaba, che prevede in futuro “settimane lavorative di 12 ore” ma per il momento è un alfiere del modello 996: cioè dalle 9 di mattina alle 9 di sera, per sei giorni a settimana!

(Fonte Forbes)

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