Home Economia L’Inganno Tricolore: Cosa Si Nasconde Dietro i Nostri Salumi “Italiani”?

L’Inganno Tricolore: Cosa Si Nasconde Dietro i Nostri Salumi “Italiani”?

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La beffa dei salumi italiani
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Siamo circondati da un’illusione gustativa, abilmente orchestrata sotto l’egida di marchi che evocano la genuinità del Bel Paese. Mortadella di Bologna? Un nome che risuona di tradizione, ma la cui carne potrebbe aver attraversato mezzo mondo. Bresaola della Valtellina? Spesso prodotta con carni provenienti da Brasile, Austria, Uruguay e Paraguay, tradendo l’immaginario di pascoli alpini. E che dire dei prosciutti, la cui italianità si ferma sovente all’etichetta, con cosce suine importate dai giganti europei del settore?

Questa non è una teoria complottista, bensì una realtà resa possibile, anzi, legalizzata, dai meccanismi dei disciplinari IGP (Indicazione Geografica Protetta). Un marchio nato con l’intento di valorizzare i prodotti legati al territorio, ma che si presta a un’interpretazione fin troppo elastica, a discapito della trasparenza verso il consumatore.

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L’IGP, in teoria, dovrebbe garantire che almeno una fase significativa del processo produttivo avvenga nella zona geografica designata. Ma cosa succede quando questa “fase” si riduce al mero confezionamento, mentre la materia prima, l’anima del prodotto, giunge da Paesi lontani? È il caso emblematico del prosciutto crudo “Fratelli Beretta”, dove l’azienda stessa dichiara l’origine estera delle cosce suine, pur potendo apporre il “Prodotto in Italia” e il tricolore grazie alla stagionatura avvenuta entro i confini nazionali. Un’operazione di marketing abile, ma eticamente discutibile.

Prendiamo ad esempio la Mortadella di Bologna IGP. Il suo disciplinare definisce una “zona di elaborazione” sorprendentemente vasta, comprendente ben otto regioni italiane. Un termine ambiguo che suggerisce come in queste aree avvenga solo una parte del processo, verosimilmente la cottura e il confezionamento, mentre l’origine e l’allevamento dei suini rimangono avvolti nel mistero di provenienze non specificate.

Il potere di definire queste regole risiede nei Consorzi di Tutela, organismi che tutelano gli interessi dei produttori. Il Ministero dell’Agricoltura e l’ICQRF hanno il compito di approvare tali disciplinari e di vigilare sulla loro applicazione. Tuttavia, l’ammissibilità a livello europeo, la fase cruciale per il riconoscimento del marchio, si concentra più sugli aspetti burocratici che sulla reale aderenza al concetto di “prodotto del territorio”. Di fatto, la decisione sostanziale sull’istituzione di un marchio DOP o IGP rimane in mano allo Stato membro, non all’Unione Europea.

Di fronte a questa opacità, il consumatore si trova disorientato, attratto da un’immagine di italianità che spesso si rivela superficiale. È tempo di smascherare questo “inganno tricolore”, di pretendere una maggiore chiarezza sull’origine delle materie prime e di riscoprire il valore di quei produttori che scelgono, con orgoglio, la filiera 100% italiana. La consapevolezza è il primo passo per non farsi ingannare.

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